Una mattina salgo di corsa sulla metro, mi siedo, apro il mio libro, Sylvia, e mi immergo nelle prime pagine.

Di fronte a me un signore sui 65 anni, molto giovanile, mi scruta da dietro la sua barbona bianca e mi guarda compiaciuto. Io cerco di non farci caso e continuo a leggere.

“Si vergogni” – mi bisbiglia. Pensando che ce l’abbia con me per qualche motivo che ignoro, immergo la testa tra le parole scritte con il Baskerville tipico di Adelphi, e trattengo il respiro.

“Signorina? Si vergogni” – dice, a voce più alta e sporgendosi in avanti. “Si vergogni a leggere in metro invece di guardare il cellulare come tutti gli altri, ah ah!”.

Ma veniamo al libro, che è meglio.

Sylvia è un libro che mi ha rapito fin dalle prime pagine: l’avevo visto molte volte in libreria e la sua copertina mi chiamava. Il mio istinto in questo caso ha funzionato.

Scritto da Leonard Michaels nel 1992, è un breve romanzo che racconta la storia, realmente accaduta, tra l’autore e la sua prima moglie, Sylvia Bloch. Raccontato in prima persona, il libro sembra un vero e proprio tentativo di esorcizzare il ricordo di questa relazione tormentata.

Sylvia e Leonard si incontrano a New York nel 1960. La città è in pieno fermento culturale, tra Beat generation e figli dei fiori, e Leonard è un aspirante scrittore appena laureato all’università di Berkeley. I due si conoscono tramite un’amica comune, e Sylvia suscita subito un fascino magnetico su di lui.

Ci conoscevamo da meno di un’ora, ma sembrava che fossimo insieme, nella pienezza di quel momento da sempre. Camminammo per diversi isolati senza flirtare, a stento lanciandoci un’occhiata di tanto in tanto, tenendoci vicini.

Senza nemmeno capire come, Sylvia e Leonard iniziano una relazione tormentata, pesante, difficile. Nonostante i problemi, decidono di sposarsi. Lei è gelosissima, insicura fino al midollo, perfezionista e piena di manie; Leonard cerca di assecondarla, proteggerla, accontentarla, ma non è mai abbastanza. L’atmosfera è claustrofobica per tutto il libro, ambientato per la maggior parte del tempo in squallidi mini appartamenti della Grande Mela: l’oppressione è amplificata dai continui litigi della coppia che si esasperano fino alla tragica fine, realmente accaduta: il suicidio di Sylvia.

«Ho appena ingoiato quarantasette Seconal». Nei suoi occhi vidi uno sguardo piatto che diceva: È fatta, beccati questa.

Anche nell’ultima battuta Sylvia riesce ad essere spietata, eccessiva, accentratrice.

Ho apprezzato molto questo libro, sicuramente anche grazie al fascino incredibile che gli anni ’60 hanno sempre avuto su di me.

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