Una vita come tante

Una vita come tante

Quando ho acquistato Una vita come tante non sapevo nulla di questo libro: come mi capita spesso, avevo visto che su Instagram era molto popolare e mi sono lasciata incuriosire. I pochi elementi della trama di cui ero a conoscenza erano: l’ambientazione a New York, il racconto della vita di quattro personaggi appena usciti dall’università. Tutto molto Girls, insomma (una delle mie serie preferite; non ho ancora avuto il coraggio di avvicinarmi alla sesta stagione perché è l’ultima).

Il libro, che è lungo quasi 1100 pagine, scorre in modo incredibile, fino a diventare parte costante dei pensieri di chi lo legge: pur di andare avanti mi sono faticosamente trascinata il suo chilo di cellulosa per mezza città, con la sensazione che avevo ai tempi del liceo quando c’era la versione e portavo il dizionario di greco sottobraccio. Via via che la storia scorre non si riesce a staccarsene: diventa sempre più intensa, dolorosa, quasi da provare dolore fisico, eppure non si riesce a smettere.

Ho letto in metro, sul balcone di casa – godendomi i primi giorni di sole, al bar, al parco, e anche camminando (tra le facce divertite della gente). Sono arrivata al lavoro stanca perché la notte ho continuato a leggere fino a tardi, ma come potevo smettere? Dovevo saperne di più. Durante la giornata il libro stava vicino a me sulla scrivania, in ufficio, in attesa di correre verso la pausa pranzo o di tornare a casa; addirittura, una notte ho sognato i suoi personaggi: mi era successo in passato durante intense sessioni di chiusura per guardare Lost o How I met your mother, ma mai con un libro.

Si può parlare binge-reading, come per le serie tv? Secondo me i parallelismi sono moltissimi.

L’autrice, Hanya Yanagihara, americana di origine hawaiana e coreana, si prende le prime 150 pagine per raccontare bene i suoi personaggi, familiarizzare con loro, farci credere che tutto andrà bene e che sarà il solito romanzo su come crescere voglia dire scendere a compromessi con le proprie aspettative e ambizioni. E invece no, il libro si concentra su tutt’altro.

Jude, Malcom, JB e Willem sono quattro amici talentuosi e inseparabili. Hanno studiato insieme e ora si affacciano al mondo reale. JB è un pittore che vive tra genio e sregolatezza; Malcom un architetto di buona famiglia, il porto sicuro del gruppo; Willem un attore che via via diventa sempre più famoso e di successo. Solo di Jude non si sa molto: è un avvocato, ha dei grossi problemi di salute, non ha famiglia. La sua vita precedente al college è avvolta nel mistero perché anche solo parlarne è troppo doloroso.

Piano piano ci viene svelato tutto, tra continui flashback e ritorni al presente, in un arco temporale che copre trent’anni. Jude è enigmatico, fragilissimo, disilluso, incredulo, inconsolabile, nonostante le attenzioni delicate dei suoi amici, che rispettano i suoi silenzi e i non detti.

La modalità di costruzione del racconto mi ha ricordato molto The OA, la serie tv di Netflix uscita a dicembre: la protagonista ha chiaramente subito un trauma, ma non riesce a parlarne, e chi le sta intorno non può fare altro che adeguarsi ai suoi silenzi e alle sue stranezze; piano piano in qualche modo riuscirà ad aprirsi e a raccontare tutto agli spettatori e ai suoi ascoltatori, che, come nel caso di Jude, sono selezionati accuratamente.

Quello che si chiede Jude è: una vita vissuta nel dolore e nella sofferenza può avere un finale diverso? Non vi resta che leggerlo, se non vi spaventano le grossi moli (io non le amo, ma ho letto tutto in dieci giorni!), ma preparatevi a soffrire, stupirvi, schifarvi, sperare, sospirare di sollievo quando le cose sembrano migliorare.

Ps. il libro è stato subito etichettato come “romanzo gay”, nel tentativo di incasellare sempre tutto. Per me invece è semplicemente una storia di sofferenza, amicizia e amore.

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Com’è iniziato tutto

Com’è iniziato tutto

Mio padre faceva un lavoro impegnativo e di responsabilità.

Libero professionista, arrivava tardi dal lavoro e molto spesso passava il weekend in ufficio, tra carte, timbri, atti, rompicapi.

Amava me e i miei fratelli profondamente, ma aveva un modo molto particolare e tutto suo di dimostrarlo, fatto di sguardi, di prese in giro, di maldestre carezze e richieste di affetto.

Credo che a volte si sentisse un alieno in mezzo a questi figli chiassosi, così diversi tra loro, ma soprattutto diversi da lui.

Da bambina il momento di vicinanza più profonda che condividevo con lui era prima di andare a dormire: mi era concesso infilarmi nel lettone, prendevamo un libro illustrato, quasi sempre di Richard Scarry, e me lo leggeva. C’era Ciccio Pasticcio, il Pompiere Manichetta, il gatto Sandrino. Ne avevamo diversi, accumulati negli anni già dai miei fratelli. Ce n’era uno che reinterpretava le fiabe: Riccioli d’Oro era una gattina che entrava in casa di una famiglia di orsi e rubava la colazione all’orsacchiotto; i musicanti di Brema erano una scimmia, una volpe e un altro animale che non ricordo. Ma poi c’era Zigo Zago, il mio personaggio preferito di sempre.

Mio padre leggeva e leggeva, interpretava le voci, mi spiegava tutto. Finita la lettura, rigorosamente dovevo tornare nel mio letto (grazie mamma!).

Ho iniziato a essere sempre più curiosa: un giorno di seconda elementare mio padre è tornato a casa con un libro per me, ma un vero libro pieno di testo, non di quelli dei bambini. Si intitolava Storia di un gatto ed era edito da Salani, nella collana Nostalgia.

Ho letto e riletto quel libro mille volte: ambientato a Firenze nell’Ottocento, raccontava le peripezie di un gattino di nome Mumù e della sua padrona, l’eccentrica Contessa Iolanda.

Da quel giorno non ho smesso più: è stata la volta di Roald Dahl, poi di Christine Nöstlinger, Bianca Pitzorno, Silvana Gandolfi: ogni volta che si partiva per le vacanze i miei genitori si dovevano trascinare un borsone pieno di libri (già letti) che mi dovevo assolutamente portare dietro in caso mi fosse venuta voglia di rileggerli.

La cosa più bella era quando alle medie e al liceo potevo tirare avanti fino a notte fonda a leggere, durante i week end e le vacanze estive. Nessun rumore, tutta la casa al buio: solo la luce sopra al mio letto e una storia a farmi compagnia.

Per ricevere dei libri nuovi il rituale era sempre lo stesso: accerchiare mio padre la sera di ritorno dal lavoro; andare a dargli un bacio; richiedere dei soldi (“per favore, mi daresti 20.000 lire?”); ricevere risposta negativa (“voi figli mi avete preso per un bancomat!”); dire “ma è per dei libri”; ricevere infine il doppio della somma richiesta 😉

Quando all’università ho deciso di studiare Lettere, l’unico che si è stupito è stato proprio mio padre: “perché non fai delle facoltà normali come Giurisprudenza o Economia?”, mi ha chiesto, preoccupato. Perché, papà? Perché tra le cose fondamentali della mia persona ci sono sempre stati i libri, e sei proprio stato tu a trasmettermi la passione che ha poi condizionato tutta la mia vita, da quel giorno in cui ho ricevuto in regalo Storia di un gatto.

E quindi grazie, per avermi donato un rifugio sicuro in cui poter tornare ogni volta che voglio; nuovo ossigeno ogni volta che mi sento affaticata e benzina per una testa che è sempre in movimento, e spesso non riesce a darsi pace.