Carlo Levi, un torinese del sud

Carlo Levi, un torinese del sud

Sono passati dieci anni dalla mia laurea triennale in Lettere, eppure oggi che è il 25 aprile mi è venuta voglia di andare a rileggere la mia tesi dell’epoca, dal titolo: L’incontro con l’Altro. Una lettura di Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi.

Questo meraviglioso libro, di cui ho letto ogni analisi critica, ogni parere, recensione, articolo dell’epoca, risente purtroppo di questo titolo un po’ altisonante che solitamente spaventa i lettori. Avevo sostenuto un esame di letteratura italiana contemporanea che, tra gli altri libri da portare, aveva anche Cristo si è fermato a Eboli. È stata una scoperta incredibile.

Per prima cosa, chi era Carlo Levi? No, non era parente di Primo. Era un intellettuale torinese militante antifascista insieme a Piero Gobetti, Emilio Lussu e i fratelli Rosselli, tra gli altri. Aveva studiato medicina, ma non aveva mai esercitato la professione; allievo di Felice Casorati, si era dedicato a tempo pieno alla pittura; insieme ad altri antifascisti negli anni ’30 aveva fondato il movimento Giustizia e Libertà. Per le sue idee e attività politiche nel 1935 venne mandato al confino in Lucania, che all’epoca era tormentata dalla malaria.

Carlo Levi ha raccontato della sua esperienza quasi dieci anni dopo, scrivendo Cristo si è fermato a Eboli durante l’occupazione nazista, mentre si nascondeva a Firenze.

Tutta l’esperienza del confino, durato un anno, viene raccontata con estrema passione: Carlo Levi lascia da subito i panni dell’intellettuale per immergersi nel mondo contadino, con i suoi rituali, le sue credenze, le sue dinamiche. Rendendosi conto della disparità tra il ceto medio, completamente affiliato al fascismo, e i contadini, abbandonati a loro stessi, inizia a dare una mano esercitando il mestiere di medico. In questo modo conosce da vicino questo mondo cristallizzato nel tempo, che ai suoi occhi diventa quasi un archetipo. Stare tra i contadini di Aliano è un modo per ritrovare un’umanità ormai dispersa e Carlo Levi è bravissimo a osservare questo ecosistema con occhio un po’ da antropologo, un po’ da sociologo, un po’ da storico, ma facendosi sempre coinvolgere fino in fondo.

La sua esperienza fu così intensa grazie al suo animo sempre aperto a conoscere, a vivere in prima persona, a fare tesoro di ogni momento; tanto che Levi tornò ad Aliano spesso anche dopo la fine del confino, e infine vi si fece anche seppellire.

Perché ho amato così tanto Cristo si è fermato a Eboli? Perché è a metà tra romanzo e reportage documentaristico; perché ad ogni pagina che leggevo cresceva la sensazione di condividere il modo di pensare di Carlo Levi; perché era stato definito dalla studiosa che più se n’è occupata, Gigliola De Donato, “un torinese del sud”. Un po’ come me, insomma, nata a Torino da genitori pugliesi, cresciuta con suoni, cibi, profumi, racconti e ricordi ambientati tra mare, fichi d’india e ulivi. Sempre e per sempre né davvero torinese, né davvero pugliese, sempre a metà tra la realtà della grande città della Fiat e il mio immaginario arcaico fatto di chianche bianchissime, pomodori messi a seccare, origano profumato e sole abbacinante.

Qualche anno fa sono andata a visitare Aliano, ripercorrendo le orme di Carlo Levi, cercando di sentirlo vicino: è stata un’esperienza meravigliosa.

La terrazza di Carlo Levi nella casa di Aliano
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I calanchi tra Aliano e Alianello

Una vita come tante

Una vita come tante

Quando ho acquistato Una vita come tante non sapevo nulla di questo libro: come mi capita spesso, avevo visto che su Instagram era molto popolare e mi sono lasciata incuriosire. I pochi elementi della trama di cui ero a conoscenza erano: l’ambientazione a New York, il racconto della vita di quattro personaggi appena usciti dall’università. Tutto molto Girls, insomma (una delle mie serie preferite; non ho ancora avuto il coraggio di avvicinarmi alla sesta stagione perché è l’ultima).

Il libro, che è lungo quasi 1100 pagine, scorre in modo incredibile, fino a diventare parte costante dei pensieri di chi lo legge: pur di andare avanti mi sono faticosamente trascinata il suo chilo di cellulosa per mezza città, con la sensazione che avevo ai tempi del liceo quando c’era la versione e portavo il dizionario di greco sottobraccio. Via via che la storia scorre non si riesce a staccarsene: diventa sempre più intensa, dolorosa, quasi da provare dolore fisico, eppure non si riesce a smettere.

Ho letto in metro, sul balcone di casa – godendomi i primi giorni di sole, al bar, al parco, e anche camminando (tra le facce divertite della gente). Sono arrivata al lavoro stanca perché la notte ho continuato a leggere fino a tardi, ma come potevo smettere? Dovevo saperne di più. Durante la giornata il libro stava vicino a me sulla scrivania, in ufficio, in attesa di correre verso la pausa pranzo o di tornare a casa; addirittura, una notte ho sognato i suoi personaggi: mi era successo in passato durante intense sessioni di chiusura per guardare Lost o How I met your mother, ma mai con un libro.

Si può parlare binge-reading, come per le serie tv? Secondo me i parallelismi sono moltissimi.

L’autrice, Hanya Yanagihara, americana di origine hawaiana e coreana, si prende le prime 150 pagine per raccontare bene i suoi personaggi, familiarizzare con loro, farci credere che tutto andrà bene e che sarà il solito romanzo su come crescere voglia dire scendere a compromessi con le proprie aspettative e ambizioni. E invece no, il libro si concentra su tutt’altro.

Jude, Malcom, JB e Willem sono quattro amici talentuosi e inseparabili. Hanno studiato insieme e ora si affacciano al mondo reale. JB è un pittore che vive tra genio e sregolatezza; Malcom un architetto di buona famiglia, il porto sicuro del gruppo; Willem un attore che via via diventa sempre più famoso e di successo. Solo di Jude non si sa molto: è un avvocato, ha dei grossi problemi di salute, non ha famiglia. La sua vita precedente al college è avvolta nel mistero perché anche solo parlarne è troppo doloroso.

Piano piano ci viene svelato tutto, tra continui flashback e ritorni al presente, in un arco temporale che copre trent’anni. Jude è enigmatico, fragilissimo, disilluso, incredulo, inconsolabile, nonostante le attenzioni delicate dei suoi amici, che rispettano i suoi silenzi e i non detti.

La modalità di costruzione del racconto mi ha ricordato molto The OA, la serie tv di Netflix uscita a dicembre: la protagonista ha chiaramente subito un trauma, ma non riesce a parlarne, e chi le sta intorno non può fare altro che adeguarsi ai suoi silenzi e alle sue stranezze; piano piano in qualche modo riuscirà ad aprirsi e a raccontare tutto agli spettatori e ai suoi ascoltatori, che, come nel caso di Jude, sono selezionati accuratamente.

Quello che si chiede Jude è: una vita vissuta nel dolore e nella sofferenza può avere un finale diverso? Non vi resta che leggerlo, se non vi spaventano le grossi moli (io non le amo, ma ho letto tutto in dieci giorni!), ma preparatevi a soffrire, stupirvi, schifarvi, sperare, sospirare di sollievo quando le cose sembrano migliorare.

Ps. il libro è stato subito etichettato come “romanzo gay”, nel tentativo di incasellare sempre tutto. Per me invece è semplicemente una storia di sofferenza, amicizia e amore.

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Le nostre anime di notte

Le nostre anime di notte

Dopo aver letto Benedizione, invece di continuare con la Trilogia della Pianura, sempre di Kent Haruf, sono stata attirata come da una calamita da Le nostre anime di notte.

Complice il successo di questo libro, la gioia di vedere finalmente ai primi posti in classifica un’opera edita da una casa editrice indipendente e nata da poco, una copertina ammaliante, un titolo che evoca chiacchierate ed emozioni.

Divorato in pochi giorni. Lo stile di Haruf è sempre diretto ed essenziale, e poche parole bastano a raccontare una storia: una qualità che mi ha sempre affascinato di certi scrittori americani, una caratteristica che avrei sempre voluto fare mia ogni volta che mi sono messa con penna e cuore in mano a scrivere.

Le nostre anime di notte è il romanzo della fine: Haruf, ormai anziano e malato, sa che non gli rimane molto tempo. La sua scrittura corre veloce a raccontare come Addie, 70enne vedova, un giorno decide di attraversare la strada e andare a bussare a Louis, che abita nella casa di fronte ed è anche lui vedovo.

Per anni i due si sono incontrati sul vialetto, una vita vissuta vicini, ma senza sapere molto gli uni degli altri; ma Addie si fida istintivamente di Louis, e decide di fargli una bizzarra proposta: ti andrebbe di venire a dormire da me la sera, e parlare?

Sto parlando di attraversare la notte insieme. E di starsene al caldo nel letto, come buoni amici. Starsene a letto insieme, e tu ti fermi a dormire. Le notti sono la cosa peggiore non trovi?

E come due adolescenti che parlano davanti al portone di casa in una sera d’estate, notte dopo notte Addie e Louis si conoscono meglio, si innamorano, si completano.

Non tardano ad arrivare i problemi, però: la comunità di Holt, il piccolo paese in cui sono ambientati tutti i libri di Kent Haruf, non riesce ad adattarsi alla notizia della relazione tra i due; il figlio di Addie in particolare è contrario.

Scritto in quarantacinque giorni, un capitoletto al giorno, Le nostre anime di notte è un piccolo capolavoro che Haruf ha dedicato alla moglie Cathy, prima di morire di cancro. Intenzionato a raccontare la storia di una coppia – lui e Cathy – che trascorre le notti a parlare e a completarsi, è uno splendido regalo d’amore per la sua compagna di vita.

ps. amo la cura che NNE mette in ogni suo libro: la nota finale del traduttore, la pagina di descrizione sul sito, la playlist e, come ho già detto per Il paradiso degli animali, la quarta di copertina in cui si spiega a chi potrebbe piacere il libro. Bravi!

La vegetariana

La vegetariana

Ho scovato questo libro in una delle mie bancarelle di fiducia di via Po: in perfette condizioni, costava la metà ed era uno dei titoli che nell’ultimo periodo mi avevano incuriosito. In parte forse per la copertina color pastello, il fiore candido con quell’accenno di porpora e l’incipit che faceva pensare ai libri di Murakami.

Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante. Per essere franco, la prima volta che la vidi non mi piacque nemmeno.

L’autrice, Han Kang, coreana, si avventura nel racconto di come Yeong-hye diventi vegetariana dopo aver fatto un angoscioso sogno, e dell’impatto drammatico che questa decisione avrà su tutta la sua famiglia. Yeong-hye non è semplicemente diventata vegetariana, ma ha via via assunto comportamenti sempre più strani e particolari, fino ad arrivare all’autolesionismo. La storia si dipana in tre atti raccontati da tre punti di vista diversi: nel primo parla in prima persona il detestabile marito di Yeong-hye, che si accorge subito delle stranezze della moglie e chiama in soccorso la sorella e i suoi genitori. Nel secondo il protagonista è il marito di In-hye, la sorella della vegetariana, artista infatuato di Yeong-hye. Nel terzo l’autrice si concentra sul punto di vista di In-hye e sui suoi sforzi per aiutare la sorella.

Benché le atmosfere siano quelle un po’ oniriche e immaginifiche di Murakami, che io amo molto, questo libro mi ha lasciato un po’ l’amaro in bocca: il primo capitolo mi ha fatto pensare che si andasse in un’altra direzione, poi però la storia ha preso un’altra piega e non ha, a parer mio, ben spiegato e concluso, come se nell’ultima parte stesse andando di fretta e non approfondisse adeguatamente il racconto delle parti precedenti.

Insomma, mi sa che stavolta mi sono fatta fregare da una bellissima copertina.