Trema la notte

Trema la notte

Messina e Reggio Calabria, 1908. Da un lato all’altro dello Stretto, la vita scorre in un’immobilità atavica, tra profumo al bergamotto e matrimoni combinati.

A Messina una giovane donna, Barbara, si è ribellata al padre che la vuole moglie di un uomo che non ama, e scappa dal suo paese, Scaletta, per raggiungere la nonna, con cui condivide gli interessi (la lettura, l’opera) e i valori di una vita più libera.

A Reggio invece il piccolo Nicola, undicenne, è preda degli istinti iperprotettivi della madre, che per non farlo portare via dal diavolo, di notte lo chiude in cantina legato a un catafalco.

Le vite dei due personaggi, così come quelle di tutti gli abitanti dello Stretto, cambiano di colpo quando un fortissimo terremoto una notte si abbatte su tutta la zona. Chiuso nella sua cantina, Nicola è l’unico della sua famiglia a salvarsi, e si sente libero per la prima volta nella sua vita. Anche Barbara sopravvive alla nonna, e cerca aiuto come può, coprendosi coi vestiti che trova nelle cassettiere che affiorano dalle macerie, chiacchierando con altre superstiti rimaste sole al mondo.

Imbarcatosi su una nave diretta a Messina, nella speranza che lì la situazione sia migliore, Nicola incontra Barbara per pochi indimenticabili minuti: sulla nave, infatti, succederà qualcosa che cambierà la vita di entrambi.

Trema la notte è un libro sulla solitudine, sulla solidarietà, sulla sorellanza femminile. Affiora tanto anche il senso di colpa dei due protagonisti, che prima del terremoto si sentivano in prigione, e che pagano la loro libertà con un prezzo carissimo, fatto di morte e distruzione.

È un romanzo a due voci, scritto benissimo. La scrittura di Nadia Terranova mi rapisce, mi tiene incollata, è musicale, piacevole. Quello che avrei voluto è saperne di più di Barbara, Nicola, Jutta e Sabina. Molto di più.

Un dolore così dolce

Un dolore così dolce

Vi ricordate com’era il vostro primo amore? Il primo che vi abbia detto “ti amo”, il primo che vi ha tolto il senno, il primo che vi ha fatto sentire adulti? Io sì, molto bene: c’è stato un prima e un dopo quella storia, come dice anche Charlie, il protagonista di “Un dolore così dolce” parlando di Fran, la ragazza che gli ha rubato il cuore.

È l’estate del 1997 e Charlie ha 16 anni. A scuola andava bene, fino a quando la sua famiglia non è completamente andata a rotoli e la mamma è andata a vivere con un altro uomo, portandosi dietro la sorellina Billie. Charlie invece è stato costretto a rimanere a casa con il padre depresso e disoccupato e sta trascorrendo l’estate tra gli amici di sempre e un lavoretto alla pompa di benzina, quando nella sua vita irrompe una presenza inaspettata: Fran Fisher.

Fran e Charlie si conoscono in un prato, per caso: lei fa parte della Compagnia del Bardo, una piccola compagnia teatrale amatoriale che sta mettendo in scena Romeo e Giulietta, di cui lei recita la parte della protagonista. A Charlie del teatro interessa poco o niente, ma pur di rivederla si presenta tutti i giorni alle prove, ormai precettato nel ruolo di Benvolio.

L’esperienza della compagnia teatrale per Charlie non sarà solo un modo di conquistare il primo amore della sua vita, ma anche una scoperta di se stesso e un primo passo verso l’età adulta: qui conoscerà la vera amicizia, la condivisione, il senso di appartenenza, che niente aveva a che fare coi bulletti con cui si accompagnava a scuola. E poi lei, Fran Fisher, in tutta la sua bellezza e simpatia: un personaggio positivo che lo spinge a dare sempre il meglio di sé.

Un libro che vi farà venire nostalgia di quella tardoadolescenza in cui tutti i sentimenti sono amplificati e vissuti col volume al massimo, in cui si crede al per sempre, in cui si scoprono via via parti di noi che nemmeno sapevamo di possedere. Imparare ad amare è un dolore così dolce, straziante, ma necessario. E Nicholls ancora una volta ce lo racconta in modo magistrale.

Diciamo che non volevamo stare con nessun altro, che il tempo non trascorso insieme ci sembrava sprecato, che non riuscivamo neppure a immaginare che le cose potessero cambiare fra noi. C’è un po’ di tutto questo nel mio racconto, non piú di una manciata di pagine, in realtà. Il resto passerà sotto silenzio, il che non vuol dire che l’abbia dimenticato.

La straniera

La straniera

Una copertina interessante, un titolo che richiama un grande classico amato quando ero adolescente. Poi leggo la biografia dell’autrice sull’aletta, classe 1984, come me. Dalla foto, mi sembra di conoscerla già, Claudia Durastanti ha il volto di quella che potrebbe essere una mia amica. Inizio a leggere La straniera e ne vengo completamente rapita; stranamente, direi, perché io non amo i memoir, per esempio non amo Annie Ernaux che piace ai più. Ma la scrittura di Claudia Durastanti è veramente qualcosa di più.

Come in una chiacchierata tra amici, quando ci si racconta la propria vita contemplando il mare all’orizzonte o un cielo stellato, a poco a poco ci viene raccontata la storia della sua famiglia: figlia di genitori sordi, che si sono incontrati per caso, nata a New York, cresciuta lì e poi arrivata in un piccolo paese della Basilicata durante le scuole elementari, come a bordo di una navicella spaziale, dal futuro. Le storie dei genitori figli degli anni ’70 e di tutta la libertà e l’instabilità di quel periodo; un grande amore e una grande fine della passione che porta a notevoli squilibri famigliari; l’introversione di Claudia e i suoi modi per scappare dalla realtà trovando conforto nella scrittura e nella lettura; la famiglia numerosa rimasta negli Stati Uniti; un padre complicato; un grande amore nel quale rifugiarsi; le prime dinamiche lavorative.

Il racconto di Claudia (mi viene da chiamarla per nome perché appunto, mi sembra che ormai sia una mia amica) non risparmia niente e nessuno, con un’analisi lucidissima sulla famiglia, sulla disabilità, sull’amore.

Ho ritrovato nella sua scrittura costruita sapientemente ma sempre appropriata, delicata, mai forzata e artificiosa, tanto di Nadia Terranova, quell’aprirsi al mondo senza paura, mettendosi a nudo; la scrittura come atto catartico per comprendere meglio la realtà e farla nostra, una capacità di andare a fondo nelle cose che tanto mi serve in questo periodo in cui tutti parlano parlano e parlano ma perlopiù si rimane sempre in superficie.

Ma quando penso alle somiglianze tra i miei genitori nei pomeriggi malinconici e rabbiosi della loro adolescenza, entrambi isolati, valuto la possibilità che l’incontro tra due persone non abbia a che fare con la predestinazione quanto con una mappa biologica che si rivela mentre ci si innamora l’uno dell’altro e si scopre che c’era un’intelligenza primitiva che governava i nostri corpi ancora prima di incontrarsi, in modo che queste attraversassero città, pareti di cemento e membrane di pelle per entrare in contatto con sostanze simili e sviluppare una forma di resistenza comune, una difesa contro le offese del mondo.

La straniera del titolo è un po’ la mamma di Claudia, straniera in un mondo fatto di parole e di suoni; un po’ è Claudia stessa, straniera in America, straniera in Italia, straniera a Londra, dove risiede da diversi anni. Un bel gioco di specchi e di rimandi tra la vita della mamma, sregolata perché sempre contro le regole, libera e artefice del proprio destino, e quella di Claudia, alla ricerca di equilibrio e di normalità.

Insomma, grazie Claudia per aver condiviso con i tuoi lettori la tua storia.

Mi chiedevo costantemente come si facesse a essere giovane sapendo di esserlo, come mai per certe persone il tempo non fosse mai indietro, un rimpianto e una nostalgia, e neanche un’ansia aggressiva di futuro, ma proprio quel momento.

L’idiota

L’idiota

Chi mi legge da un po’ l’avrà capito, ormai: di base ho un animo malinconico, nostalgico, di chissà cosa o quando. Ho questa tendenza a ripensare alle cose del passato struggendomi nella sensazione che non torneranno più: non che sia un atteggiamento positivo che mi rende la vita facile, ma così è, ed è bene accettarlo, no? 😊

Tutto questo per dire che, quando vengo approcciata da libri che parlano dell’adolescenza e degli anni dell’università, sento come una calamita che mi attira a loro. Sì, dico “approcciata” perché molto spesso ho la sensazione che siano i libri ad avvicinarsi a me per essere letti, come se mi scegliessero loro. Chiamate la neuro, sì.

Anche questa volta il corso delle cose è stato lo stesso: vedo L’idiota ovunque e mi faccio attrarre dalla quarta di copertina: 18 anni, università, scoperta del mondo. Din din din, bingo!

Selin è nata nel New Jersey da genitori turchi e si è appena iscritta all’università di Harvard. Procede un po’ a tentoni in questa nuova vita, tra coinquiline, scelta dei corsi, attività extra curricolari e nuovi amici. Si iscrive subito a un corso di lingua russa, e lì conosce le due persone che diventano più importanti per lei: Svetlana e Ivan. Con Svetlana instaura subito una sincera amicizia basata sulla complicità e comprensione reciproca. 

Con Ivan, senza nemmeno sapere bene perché, incomincia un rapporto epistolare via email (sono gli anni ’90 e la posta elettronica è una grande novità). Ivan è uno studente ungherese di matematica. È più grande di Selin, per molto tempo le scrive lunghe mail parlando dei massimi sistemi e di letteratura. La conversazione va avanti: Selin studia linguistica e glottologia e condisce le sue mail con riferimenti ai suoi studi, fino a quando un giorno confessa a Ivan di essersi innamorata di lui. I due iniziano a frequentarsi dal vivo, tra telefonate, tira e molla e incomprensioni varie: Ivan ha una fidanzata e vuole che sia chiaro che lui e Selin sono solo amici. 

A questo punto Selin, del tutto “succube” del fascino di questo ragazzo più grande, su suo suggerimento acconsente a partecipare a un programma estivo di insegnamento dell’inglese nelle campagne ungheresi, insieme ad altri studenti. 

Questa la trama, a grandi linee: per quanto nel libro ci siano brani più che godibili, relativi alla vita universitaria, al modo di vivere e sentire le emozioni quando si hanno 18 anni (e chi se li dimentica) e anche degli spunti interessanti relativi alla parte ambientata in Ungheria, questo romanzo a parer mio manca di qualcosa, ma non riesco bene a individuare cosa. Forse si dilunga troppo? Forse apre troppe digressioni sulle materie di studio di Selin e di Ivan (anche se io, da ex studentessa di Lettere con una grande passione per la linguistica, ho goduto a leggere in un romanzo riferimenti alla teoria di Sapir Whorf, avevo gli occhi a cuore). Ho amato Selin, complici anche le tante somiglianze con G., una mia amata compagna di università che purtroppo non sento più da anni. Ho amato Selin perché mi ci sono ritrovata: anche io quando avevo 17-18-19 anni ero bravissima ad invaghirmi sempre di persone irraggiungibili, intellettuali, che mi facevano sempre pensare che alla fine saremmo stati insieme coronando un meraviglioso sogno d’amore, e invece niente, ero solo un’idiota.

Forse è proprio questo il senso della sospensione del romanzo? Il racconto di come le cose vanno in un modo, ci fanno stare male, e non è detto che si risolvano come vogliamo noi. Ho iniziato a scrivere questa recensione pensando che il libro non mi aveva colpito più di tanto, ma via via invece ho capito che il senso è proprio quello: far uscire fuori esattamente come ci si sente a quell’età, quando ci si innamora sempre della persona sbagliata, che a volte ci fa sentire proprio degli idioti.

 

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E tu splendi

E tu splendi

Tutte le estati era la solita storia: mia madre iniziava a preparare i bagagli settimane prima, invitando anche me e mia sorella a farlo prima possibile. Valigie con le cose per il mare, valigie con le mie cose, con quelle di mia sorella, di mio padre, la sua attrezzatura per andare a pescare i ricci, la valigia di mia madre, la borsa con le cose della nostra gatta Titina, il trasportino con lei dentro, la borsa dei miei libri da leggere e rileggere nelle vacanze.

Mio padre caricava la vecchia Delta grigia (che puzzava sempre di benzina) con l’aiuto di mia sorella, che era abbastanza grande per aiutarlo con i “ragni”, quegli uncini elastici che tenevano insieme tutta la roba che aveva sistemato sul tetto apribile dell’auto. Io, invece, ero piccola e dovevo starmene lontano: “non si sa mai che uno dei ragni ti finisca in un occhio”.

Si partiva da Torino e faceva caldo, caldissimo. Niente aria condizionata; si andava avanti con le bottiglie di acqua che mia madre aveva messo in freezer il giorno prima. La gatta, poverina, miagolava terrorizzata per tutto il viaggio; non mangiava, non beveva, non faceva nessun bisogno. La consolavo accarezzandola.

Si arrivava in Puglia e ogni volta tutto era sempre allo stesso posto: il tavolo di legno della cucina, le sedie scomodissime dall’aria tirolese, che non c’entravano niente. L’odore di grandi biscotti del forno vicino a casa, che aveva impregnato gli scaffali. Le ruote di focaccia mangiate in piedi tutti insieme, con foga. Il grande secchio nel quale mio padre rimestava i fichi d’india nell’acqua con un bastone, per togliere tutte le spine. Lo sgabello verde, i miei giochi ereditati dai miei fratelli, il tempo che scorreva lentissimo, la “controra” in cui faceva troppo caldo per fare qualsiasi cosa che non fosse dormire (ma io leggevo o guardavo la tv con mia sorella – eravamo fortunate gli anni in cui c’erano le Olimpiadi).

Quando arrivavamo al paese, mio padre si trasformava: riponeva i panni da libero professionista di Torino e metteva quelli che amava di più, più autentici. Vecchi pantaloni o calzoncini, camicie di lino di colori improbabili. A volte andavamo insieme a fare le commissioni e parlava in dialetto come se non fosse mai andato via dalla sua terra. Mi portava sul Ciao rosso, io in piedi appoggiata al manubrio.

Cucinava bontà, faceva esperimenti, aggiustava e sistemava cose. Ogni tanto con mia sorella scendevamo nella stanza più interessante della casa, la cantina: era piena di vecchie cose che mi incuriosivano, di bottiglie di vino, vestiti, mobili, vecchi giocattoli.

Avevo una grande amica al paese, che ero sempre impaziente di rivedere. Ogni anno era bello ritrovarsi e confrontarsi, vedere un po’ come eravamo cambiate e cresciute e chi era cresciuta di più e come mai. Passavamo insieme dei pomeriggi bellissimi a giocare e a raccontarci cose, nel resto dell’anno ci mandavamo letterine per tenerci aggiornate. A volte uscivamo (al paese mi era concesso uscire da sola fin da piccolina), andavamo a comprare le patatine al bar Mercurio, o a vedere un paio di negozi di giocattoli.

Ogni anno tornare giù era come tornare alle mie origini più vere, e così è stato leggere il libro di Giuseppe Catozzella, E tu splendi. Mi ha catapultato di nuovo nel microcosmo del paese e di quelle estati, ed è stata una scoperta graditissima e molto intensa. Attraverso gli occhi di un bambino, Pietro, vediamo scorrere le vicende di un gruppo di rifugiati scappati dalla propria terra, che al paese di Pietro, in Basilicata, inizialmente non sono accolti per niente bene. Nel frattempo, Pietro, insieme alla sorellina Nina, sta affrontando la prova più dolorosa a cui un bambino possa sottoporsi, dato che la mamma è morta da poco tempo; ma Pietro se la ricorda bene, e continua a parlarle e a cercare segni della sua presenza, in un modo così delicato e coinvolgente che vi verranno le lacrime agli occhi a leggere certe pagine, ma vi verrà anche tanto da ridere in altri passi, perché la sua ingenuità è veramente simpatica e trascinante.

Nel raccontare la Basilicata e il sud Pietro è un novello Carlo Levi, che, come ho detto altre volte, amo particolarmente (tanto di tesi di laurea!): Pietro, che vive a Milano, osserva le cose con occhio esterno, per poi lasciarsi coinvolgere totalmente nelle vicende del piccolo paese di Arigliana, “cinquanta case di pietra e duecento abitanti”. Si sente tanto l’eco leviano, ma se in Cristo si è fermato a Eboli l’incontro con l’altro era l’Altro lucano, con il suo microcosmo cristallizzato nel tempo, qui l’incontro e scoperta è al quadrato; tra Pietro, ormai milanese, e il paese, e tra lo stesso Pietro e gli stranieri – e ovviamente tra gli stranieri e tutto il paese – tra il mondo contadino tanto caro a Carlo Levi e i “notabili”, spesso corrotti e in mala fede.

Mi trovavo su una spiaggia a Bali quando ho letto E tu splendi, ma in certi momenti, leggendo di Pietro e del suo amico Refé, di Nina e del papà, mi è sembrato di trovarmi in quelle estati afose delle mia infanzia e mi ha fatto piacevolmente ripensare a piccoli dettagli, ricordi ai quali sono particolarmente legata ma che avevo per un attimo accantonato.

Maggio, giugno e luglio

Maggio, giugno e luglio

Tutte le volte è la stessa storia: mi riprometto di essere costante, di scrivere qualcosa alla fine di ogni libro, ma poi vengo risucchiata dai pensieri e dagli eventi – e niente, non ce la faccio. È stato un maggio rocambolesco, iniziato con il Salone del Libro e il mio compleanno. Quest’anno non sono riuscita a godermi il Salone come avrei voluto, credo fosse il 15esimo di fila che ho vissuto sognando di essere una famosa editor dell’Einaudi, tra feste e presentazioni con autori che amo; ma niente da fare, quest’anno mi sono sentita più invisibile che mai, più timida che mai – a parte il gran bel giro che ho fatto da Fandango: sapete che da loro lavorano persone che hanno davvero una gran passione e un cuore grande grande?

Varrebbe la pena forse di fare un post a parte su alcune riflessioni su questo mondo di book blogger: a volte apro Instagram e mi sento quasi sopraffatta da tutte queste immagini, dalle pose, dalle challenge di lettura, dalle stories. Mi viene la nausea e chiudo tutto, poi passa qualche giorno e torno lì, a vedere libri, a leggere di libri. Spesso mi chiedo però: e se chiudessi tutto? Ha senso tutto questo? Non riuscendo a darmi risposta, continuo. Si vede che è la cosa giusta da fare, forse.

Ma veniamo a noi. Provo a mettere in ordine i pensieri e a scrivere qualcosa sulle ultime letture. Pronti?

Felici i felici + Babilonia, Yasmina Reza

Yasmina Reza è veramente abilissima a tratteggiare caratteri e situazioni, a far capire tutto anche senza scendere nel dettaglio. Felici i felici è una storia corale sotto forma di racconti: ogni personaggio ci dà la sua personale versione dei fatti, dei sentimenti che prova e di ciò in cui crede. Un affresco anche crudele dei rapporti umani e di coppia.

Babilonia invece è raccontato tutto dall’unico punto di vista della sua stravagante protagonista, una donna sui sessant’anni che inizia la serata organizzando una festa e la termina rendendosi complice di un terribile delitto, ma sempre con una certa leggerezza, con ironia e un sarcasmo che sono il marchio di fabbrica dei personaggi di Yasmina Reza. Molto interessanti entrambi.

Le stelle cadranno tutte insieme, Iacopo Barison

Iacopo Barison è davvero una delle voci più promettenti della scena letteraria italiana delle generazioni più giovani: sono rimasta molto colpita dal suo racconto perché non sembrava nemmeno un libro scritto da un italiano. Stile scorrevole e piacevole, si parte indietro nel tempo e poi si va avanti di dieci anni, come piace a me, come in certi libri americani dal sapore cinematografico.

Tre amici legati da un sogno: diventare famosi nel campo dello spettacolo. Un cane dall’insolito nome Cinemascope, un altro cane che si chiama Quattroterzi, la scuola di cinematografia a Roma. Amore, passione, scoperta e dolore in una storia che racconta i sogni e la fatica a trovare il proprio posto nel mondo che caratterizzano un’intera generazione.

Parlarne tra amici, Sally Rooney

Mi viene difficile parlare di questo libro: l’ho veramente amato tanto, immedesimandomi moltissimo nei suoi personaggi e nelle dinamiche incredibili in cui rimangono avvolti. Frances e Bobbi sono due ragazze poco più che ventenni, sono grandi amiche e in passato hanno avuto una relazione; Frances è timida e si fa molto trascinare dalla personalità esuberante di Bobbi. Una sera conoscono Melissa, scrittrice di successo e moglie di Nick, un attore bello e intelligente. Il gioco delle coppie diventa complicato quando Bobbi si invaghisce di Melissa e ne diventa sempre più dipendente, Frances si innamora di Nick e i due iniziano una relazione, prima clandestina e poi alla luce del sole. Un romanzo sull’amore, sullo scoprire se stessi, sulle autopunizioni che prima o poi tutti noi ci infliggiamo per capire di più come siamo veramente. Un romanzo sul tradimento visto al di fuori dei soliti cliché, sull’amicizia, sul dolore, il racconto della nostra generazione (anche se Frances è più giovane di me, mentre Nick ha la mia età). Da leggere, da divorare, da amare.

Tre camere a Manhattan, Georges Simenon

Un uomo e una donna si incontrano una sera a Manhattan, e tra incertezze e difficoltà imparano a conoscersi e ad amarsi come in un film in bianco e nero degli anni ’50. Una relazione che è un ottovolante emotivo, e noi li spiamo come dal buco della serratura. Molto bello.

Divorare il cielo, Paolo Giordano

Una masseria in Puglia, una ragazzina e tre amici – potrebbe essere una sola estate e invece è una storia che si svolge nell’arco di vent’anni. Un grande amore, quello tra Teresa e Bern, delle grandi amicizie, dei grandi ideali per i quali lottare, a volte sacrificando la vita. Non dico di più, perché è un romanzo bellissimo nel quale è proprio necessario immergersi e da cui restare affascinati (cosa darei per conoscere il carismatico Bern in persona).

La bambina falena, Luca Bertolotti

Una strana bambina di tre anni viene ritrovata in pieno autunno su una spiaggia ligure, zuppa d’acqua e incapace di dire da dove venga. Viene adottata da una famiglia, ma, rimasta orfana dei genitori adottivi, quando compie 23 anni decide di mettersi in cerca delle sue origini. Ripercorre così la strada che l’ha portata al mare quel giorno, imbattendosi in bizzarri osti nostalgici della DDR, ragazzini complottisti, un parcheggio di roulotte e soprattutto, una coppia che ha deciso di vivere lontano da tutto e da tutti. Un po’ difficoltoso all’inizio, ma quando si inizia a capire quali siano le origini di Greta, la protagonista, diventa appassionante e coinvolgente.

Beautiful Music, Michael Zadoorian

Anni ’70, pieno periodo hippy, una famiglia composta da padre, madre e un figlio adolescente pieno di paure, e – diciamocelo – pure un po’ sfigato: nel tempo libero costruisce modellini e ascolta musica con lo stereo del padre; ma è quando la sua vita ha una svolta improvvisa che la musica diventa una vera valvola di sfogo, una consolazione, un’amica che gli salva la vita. Un libro che chiunque sia un vero amante della musica amerà, provando molta invidia per il passaggio in cui il protagonista riesce a vedere Iggy and the Stogees dal vivo (a quei tempi).

La verità che ricordavo

La verità che ricordavo

Era un pomeriggio afoso di luglio. Seduti sulla Punto bianca, Livio ed io stavamo andando da un cliente. La città era già semivuota, percorrevamo velocemente un grande viale dove le macchine sfrecciavano sull’asfalto caldo. Dopo un serrato scambio di consigli letterari, Livio iniziò a raccontarmi del libro che stava scrivendo, al quale stava lavorando da molto tempo: era la storia di Dino, suo padre, accaduta durante la Seconda Guerra Mondiale; era la storia raccontata ne La verità che ricordavo, che in quel momento era ancora un file nascosto del suo Mac. Da quel momento Dino diventò un grande amico per me. E anche Livio.

Questa storia straordinaria incomincia a Narzole, un paese delle Langhe. Dino ha 17 anni e fa il cameriere nell’osteria di famiglia. Un giorno i fascisti vengono a prendere lui e suo fratello, nonostante non fossero ebrei, e li deportano in Germania. Qui Dino ha la grande fortuna di non finire in un campo di concentramento, ma in un Offizierskasino, un circolo ufficiali delle SS, dove lo prendono a lavorare come sguattero di cucina e cameriere.

Tutto sommato Dino se la passa abbastanza bene, e non ha idea di che cosa stia avvenendo nel resto del mondo e nei campi di concentramento. Lo trattano bene, lui è spaventato e ha solo 17 anni. Dentro di sé inizia a farsi strada un dilemma: cosa pensare dei Tedeschi? In più, c’è un fedele “amico” che compare ogni tanto a sparigliare le carte: un “nano incredibilmente alto” che ama stuzzicare Dino e metterlo in difficoltà.

Perché leggere La verità che ricordavo? Perché è uno splendido romanzo di formazione che è accaduto realmente; perché ci offre un punto di vista diverso sulla Storia, perché è scritto molto bene, perché certe cose non si possono dimenticare e non devono esserlo.

Tornati in agenzia, quel giorno mi arrivò una email da Livio, con oggetto “leggere“. In allegato il racconto di Dino. Da quel giorno ho letto e riletto questa storia tantissime volte, in tantissime forme, consigliando, discutendo, infastidendo (qualche volta), complimentandomi (molto spesso). 

Potete scaricare le prime dieci pagine del libro qui. Intanto vi lascio una piccola pillola della gentilezza d’animo di Dino.

Ci proviamo?

Ci proviamo?

L’ultimo post è datato 5 maggio: tanto tempo, troppo tempo.

Se penso alla persona che l’ha scritto, mi sembra contemporaneamente diversissima e uguale ad ora. Incredibile: sono sempre io.

Da quel 5 maggio è successo un po’ di tutto: un nuovo lavoro, salutare tutte quelle persone che condividevano con me la vita quotidiana da anni, conoscerne di nuove, capire come porsi nel migliore dei modi, i meccanismi e le dinamiche di un nuovo ecosistema. Non è una cosa da poco: all’inizio ti sembra di camminare sui cristalli, ti muovi adagio e con cautela. Soprattutto quando l’esperienza che hai avuto prima non è stata super positiva a causa di alcune ingenuità commesse fin da subito.

E così ho un nuovo lavoro: in un posto dove non mi sento più l’ultima degli ultimi, dove faccio quello che mi piace. Soprattutto, la sera vado a dormire serena, la mattina ho sempre sonno (sono pur sempre io), ma mi avvio tranquilla sul mio tram, senza stomaco rivoltato e gambe rigide di ansia. Niente più pianti, niente più travasi di bile per ogni minima cosa.

In tutto questo stravolgimento, in questi mesi sono riuscita a leggere poco e male, spesso saltando da un libro all’altro.

Per tanto tempo ho provato a mettere da un lato i libri per poi farne una recensione. E così nel frattempo c’è stato il Salone del Libro, la presentazione con Alexandra Kleeman alla Libreria Therese, la lettura de L’arminuta, un libro meraviglioso, ho perso sei chili, mi sono messa a dieta e a fare sport, ho fatto un viaggio in Giappone che mi ha preso testa e cuore; ma non sono mai riuscita a trovare un po’ di calma e tranquillità per scriverne. Una cosa è certa però: ogni volta che sono stata felice per un successo, o triste, o stanca, sono entrata in libreria per sentirmi accolta, protetta, completamente a mio agio.

Mi piacerebbe riuscire, finalmente, a parlare di tutte le storie di carta che mi sono passate per le mani in questi mesi: ci proviamo? 

Ecco tutti i titoli che mi sono passati per le mani recentemente; se ne parlerà nei prossimi post 😉

Teorema dell’incompletezza – Valerio Callieri 

Il corpo che vuoi – Alexandra Kleeman

Come una canzone – Luca Giachi

L’arminuta – Donatella di Pietrantonio

La stanza di Therese – Francesco D’Isa

Memoria di ragazza – Annie Ernaux

Cerchi infiniti – Cees Noteboom

Mi chiamo Lucy Barton – Elizabeth Strout

La corsa di Billy – Patricia Neil Warren

Trilogia di New York – Paul Auster

Umami – Laia Jufresa

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Anche June gradisce le ultime letture

 

Grande Era Onirica

Grande Era Onirica

Si dice che siano le malattie del secolo, ansia e depressione. C’è un gran dire “ho l’ansia”, “mi è venuto il panico”, “ho avuto un attacco di panico”; ma quante persone possono davvero dire di essere depresse, di aver sperimentato sulla loro pelle quella sensazione inaspettata e immotivata di paura, quasi di svenimento, di paralisi dell’attacco di panico? Cosa vuol dire essere depressi, e cosa comporta? Per fortuna per loro, la maggior parte delle persone usa questi termini in modo improprio e iperbolico, scambiando un po’ di tristezza e tensione per depressione e disturbo d’ansia.

Se ne sente parlare tanto, ma quando si va più in fondo alla questione viene a galla lo spinoso discorso dei farmaci e dello stigma sociale che questo tipo di malattie comporta.

“Dovrebbe uscire di più, sforzarsi”. “Dovrebbe darsi una calmata”. “Che motivo c’è di essere tristi?”. Il motivo è che quella persona ha un disturbo, una malattia: il suo cervello non riesce a produrre più serotonina, e necessita di medicinali che svolgano questo compito.

Grande Era Onirica, il libro di Marta Zura-Puntaroni, affronta questo argomento con estrema profondità e accuratezza, senza mai cadere nella tentazione di raccontare la situazione mitizzandola.

Ho iniziato a leggerlo in una pigra domenica mattina, e ne sono rimasta completamente avvolta, fino a divorarlo tutto in un giorno. Marta ha 26 anni, vive da sola a Siena, dove ha studiato Lettere e si è laureata in letteratura ispanoamericana. Conduce una vita sregolata, tra un amore quasi irrazionale per un uomo molto più grande, l’Altro, la vita da studentessa, la biblioteca, le sedute dalla psicoterapeuta e un unico grande faro a fare luce costante nella sua vita complicata: l’amicizia con la Ste, nata quasi per caso.

Marta si muove tra sogno, incubo e realtà tra una Grande Era Onirica e l’altra, ovvero tra un momento di crisi e l’altro. Le sue Grandi Ere Oniriche segnano le sue dipendenze e le sue lotte interiori (le sigarette, il Martini, gli psicofarmaci). È un’autolesionista emotiva, Marta; in un continuo salto temporale tra passato e presente ci racconta della sua durissima battaglia con la depressione, l’ansia, il bipolarismo, sempre affiancata da due figure che assumono quasi contorni celestiali: la psicoterapeuta (l’Hippy) e lo psichiatra (lo Junghiano).

Come mai ogni cambiamento mi segna in maniera così irreversibile, mi lascia così priva di energia, ha bisogno di anni per essere assorbito e accettato, perché tutto mi sembra irrecuperabile?

È stata definita la voce di una generazione, quella di Marta Zura-Puntaroni; io personalmente la ritengo la voce coraggiosa di tutti quelli che ogni giorno combattono con i propri mostri interiori, che sanno di cosa parlano quando pronunciano le parole ansia, depressione, psicofarmaci, psichiatra, perché ci sono passati sulla loro pelle. Molto spesso ci si vergogna di parlare liberamente di questo argomento, come se ci fosse differenza tra avere una condizione medica come l’emicrania e una come la depressione. Cosa ci porta a nasconderci, vergognarci, isolarci, seppellirci in casa? Libri come quello di Marta Zura-Puntaroni sono un passo avanti per la consapevolezza collettiva nei confronti di certi temi: per questo dovrebbero essere letti da più gente possibile.

Carlo Levi, un torinese del sud

Carlo Levi, un torinese del sud

Sono passati dieci anni dalla mia laurea triennale in Lettere, eppure oggi che è il 25 aprile mi è venuta voglia di andare a rileggere la mia tesi dell’epoca, dal titolo: L’incontro con l’Altro. Una lettura di Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi.

Questo meraviglioso libro, di cui ho letto ogni analisi critica, ogni parere, recensione, articolo dell’epoca, risente purtroppo di questo titolo un po’ altisonante che solitamente spaventa i lettori. Avevo sostenuto un esame di letteratura italiana contemporanea che, tra gli altri libri da portare, aveva anche Cristo si è fermato a Eboli. È stata una scoperta incredibile.

Per prima cosa, chi era Carlo Levi? No, non era parente di Primo. Era un intellettuale torinese militante antifascista insieme a Piero Gobetti, Emilio Lussu e i fratelli Rosselli, tra gli altri. Aveva studiato medicina, ma non aveva mai esercitato la professione; allievo di Felice Casorati, si era dedicato a tempo pieno alla pittura; insieme ad altri antifascisti negli anni ’30 aveva fondato il movimento Giustizia e Libertà. Per le sue idee e attività politiche nel 1935 venne mandato al confino in Lucania, che all’epoca era tormentata dalla malaria.

Carlo Levi ha raccontato della sua esperienza quasi dieci anni dopo, scrivendo Cristo si è fermato a Eboli durante l’occupazione nazista, mentre si nascondeva a Firenze.

Tutta l’esperienza del confino, durato un anno, viene raccontata con estrema passione: Carlo Levi lascia da subito i panni dell’intellettuale per immergersi nel mondo contadino, con i suoi rituali, le sue credenze, le sue dinamiche. Rendendosi conto della disparità tra il ceto medio, completamente affiliato al fascismo, e i contadini, abbandonati a loro stessi, inizia a dare una mano esercitando il mestiere di medico. In questo modo conosce da vicino questo mondo cristallizzato nel tempo, che ai suoi occhi diventa quasi un archetipo. Stare tra i contadini di Aliano è un modo per ritrovare un’umanità ormai dispersa e Carlo Levi è bravissimo a osservare questo ecosistema con occhio un po’ da antropologo, un po’ da sociologo, un po’ da storico, ma facendosi sempre coinvolgere fino in fondo.

La sua esperienza fu così intensa grazie al suo animo sempre aperto a conoscere, a vivere in prima persona, a fare tesoro di ogni momento; tanto che Levi tornò ad Aliano spesso anche dopo la fine del confino, e infine vi si fece anche seppellire.

Perché ho amato così tanto Cristo si è fermato a Eboli? Perché è a metà tra romanzo e reportage documentaristico; perché ad ogni pagina che leggevo cresceva la sensazione di condividere il modo di pensare di Carlo Levi; perché era stato definito dalla studiosa che più se n’è occupata, Gigliola De Donato, “un torinese del sud”. Un po’ come me, insomma, nata a Torino da genitori pugliesi, cresciuta con suoni, cibi, profumi, racconti e ricordi ambientati tra mare, fichi d’india e ulivi. Sempre e per sempre né davvero torinese, né davvero pugliese, sempre a metà tra la realtà della grande città della Fiat e il mio immaginario arcaico fatto di chianche bianchissime, pomodori messi a seccare, origano profumato e sole abbacinante.

Qualche anno fa sono andata a visitare Aliano, ripercorrendo le orme di Carlo Levi, cercando di sentirlo vicino: è stata un’esperienza meravigliosa.

La terrazza di Carlo Levi nella casa di Aliano

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I calanchi tra Aliano e Alianello